Sede distaccata della Pinacoteca Nazionale, è noto anche con il nome di Palazzo Pepoli “Nuovo”, per distinguerlo dal “Vecchio”, la dimora trecentesca della famiglia Pepoli collocata sul lato opposto di via Castiglione.
Costruito a partire dal 1653 per volere di Odoardo Pepoli, il nuovo palazzo fu pensato come una residenza signorile, moderna e sfarzosa, adeguata a rappresentare il prestigio sociale raggiunto dai Pepoli che, prima commercianti di stoffe e in seguito cambiavalute e banchieri, si erano notevolmente arricchiti fino a diventare una delle famiglie senatorie più in vista di Bologna.
La costruzione del palazzo, di cui non è noto il nome del progettista, iniziò dal monumentale scalone, imponente ed elegante, spazio scenografico funzionale al cerimoniale che caratterizzava la società aristocratica barocca e che collega direttamente il cortile al Salone d’onore. Sulla volta dello scalone si ammirano i due ovali affrescati nel 1665 da Domenico Maria Canuti (Bologna, 1625 – 1684) raffiguranti Taddeo Pepoli che viene nominato signore della città e Taddeo Pepoli che viene confermato Vicario apostolico da Benedetto XII. Gli scorci arditi, la mobile articolazione dello spazio, la foga della pennellata, il ricorso a una tavolozza generosa di matrice veneta, sono tutti espedienti utili a suscitare meraviglia.
Il piano nobile del palazzo ospita una serie di sale splendidamente affrescate dai principali protagonisti della grande decorazione bolognese tra la seconda metà del Seicento e gli inizi del secolo successivo.
Il Salone d’Onore
La Sala di Felsina
In seguito alla morte di Odoardo Pepoli nel 1680, i lavori proseguono con il nipote Ercole, divenuto senatore nel 1683 e aggregato alla nobiltà veneziana nel 1686. A questo secondo evento allude con ogni probabilità il soffitto della Sala di Felsina, dipinto nel 1690 e dominato dal Trionfo di Felsina, una complessa raffigurazione allegorica che vede protagonista la giovane bionda che avanza seduta su un cocchio trainato dai leoni alati di Venezia, mentre un putto la incorona con il corno ducale. Si tratta della personificazione della Aristocrazia bolognese, accompagnata dalle ancelle recanti gli attributi del potere – il fascio littorio e la clava, in riferimento a Ercole, e le insegne araldiche della città – introdotte a destra da un putto impegnato a spezzare le catene, simbolo del dominio papale da cui la nobiltà locale aspirava emanciparsi.
Il ricorso a colori tenui e a forme levigate definisce lo stile composto e classicheggiante degli autori di questo soffitto, i fratelli Giuseppe (Bologna, 1645 – 1727) e Antonio Rolli (Bologna, 1643 – 1695), rispettivamente figurista e pittore di architetture, eredi della tradizione di quadratura in voga a Bologna fin dalla prima metà del Seicento e proseguita ancora nel Settecento grazie agli apporti scenografici dei Bibiena.
La Sala delle Stagioni
Si deve a Giuseppe Maria Crespi (Bologna, 1665 – 1747) l’anticonvenzionale decorazione della Sala delle Stagioni realizzata nel 1699-1700, che trae il suo nome dalla presenza delle allegorie delle Stagioni dislocate lungo il cornicione. Ciascuna è accompagnata da bambini scomposti e indaffarati, ugualmente partecipi del gioco provocatorio messo a punto dal pittore, deciso a sovvertire le consuete gerarchie compositive e a introdurre anche nel contesto della grande decorazione il tono spontaneo della scena di genere.
La Sala dell’Olimpo
L’artista procede in solitaria, evitando l’inclusione di architetture dipinte, e dispiegando un ampio paesaggio a partire dall’imposta della volta. Un’ambientazione a metà tra la marina e il bosco, declinata nei toni del grigio e dell’azzurro e in contrappunto con i bagliori infuocati del cielo, è qui il luogo di un Olimpo ideale, in cui le nubi descrivono uno spazio concentrico dominato al vertice dal Carro del Sole trainato da Apollo.
La Sala di Alessandro
Morto Ercole Pepoli nel 1707, i lavori di decorazione del palazzo proseguono con la Sala di Alessandro in cui Alessandro Pepoli, come il suo predecessore, sceglie un eroe omonimo, stavolta tratto dalla storia antica, per l’esaltazione della casata attraverso la propria persona. Il pittore cui è affidata la realizzazione della scena centrale con Alessandro Magno che taglia il nodo gordiano è il talentuoso Donato Creti (Cremona, 1671 – Bologna, 1749) che si firma al di sopra del cornicione, in un punto non visibile dal basso, apponendo la data del 1710 conclusiva dell’impresa. Tra i massimi capolavori dell’artista, l’affresco rimanda all’aneddoto del taglio del nodo che stringeva il giogo del carro degli antenati di re Mida, reciso dal condottiero macedone senza esitazioni, con un netto colpo di spada, avverando così la profezia di dominio sull’Asia. Risalta quindi l’energica figura di Alessandro Magno, enfatizzata dal rosso vivo del manto quale apice simbolico e visivo, collocata come è in cima alla gradinata del tempio di Zeus e nello spazio fittizio dell’architettura dipinta da Marc’Antonio Chiarini (Bologna, 1652 – 1730).
Nei due medaglioni dorati alla base della volta sono rappresentati gli episodi Alessandro con il suo maestro Aristotele e Alessandro sconfigge Dario alla battaglia di Isso. Si tratta di un impianto complesso in termini di raffigurazione prospettica, dichiaratamente celebrativo e messo in opera con grande virtuosismo, senza dubbio gradito alla committenza, poiché rappresentativo del “ritorno all’ordine” testimoniato dalla ricomparsa dell’incorniciatura illusionistica della quadratura e dal classicismo dello stile di Creti, la cui fermezza costruttiva e il disegno raffinato e impeccabile si contrappongono alla vitalità e naturalezza degli affreschi di Crespi.