La Pinacoteca Nazionale di Bologna nasce nel 1808 come quadreria dell’Accademia di Belle Arti, l’istituto d’istruzione sorto dalle ceneri della settecentesca Accademia Clementina. L’antico nucleo, proveniente dall’Istituto delle Scienze, viene arricchito dalla straordinaria raccolta di quasi mille dipinti frutto delle soppressioni di chiese e conventi compiute dopo l’ingresso delle truppe napoleoniche a Bologna, tra il 1797 e il 1810. Il museo conosce per tutto l’Ottocento un forte incremento di sale e di opere, frutto delle soppressioni del 1866 attuate dal nuovo stato italiano, ma anche di lasciti e acquisizioni. Nel 1882 la Pinacoteca fu resa autonoma dall’Accademia di Belle Arti di Bologna.
L’itinerario di visita si snoda a partire dalle ricche testimonianze del Trecento bolognese, con opere dello Pseudo Jacopino, di Vitale da Bologna e di Simone dei Crocefissi. Di particolare rilievo il polittico di Giotto e la sezione dedicata agli affreschi provenienti dalla chiesetta di S. Maria di Mezzaratta, ricomposti secondo la struttura architettonica originale.
Il Rinascimento è testimoniato dai bolognesi Francesco Francia e Amico Aspertini, oltre ai ferraresi Lorenzo Costa, Francesco del Cossa con la “Pala dei Mercanti” ed Ercole de’ Roberti col piccolo frammento proveniente dalla cappella Garganelli nella cattedrale di S. Pietro.
Dopo il capolavoro di Raffaello ”Estasi di santa Cecilia” e la “Pala di S. Margherita” di Parmigianino, il percorso giunge alla riforma di fine Cinquecento, testimoniata dalla folta produzione di Agostino, Annibale e Ludovico Carracci.
Seguono poi i capisaldi del Seicento emiliano: le opere di Guido Reni, fra le quali capolavori come la “Strage degli innocenti” e la cosiddetta “Pala del voto”; le tre straordinarie pale di Domenichino raffiguranti “Il martirio di sant’Agnese”, la “Madonna del Rosario” e il “San Pietro martire”; il “Battesimo di Cristo” di Francesco Albani; il “Compianto su Cristo” di Alessandro Tiarini, “Sebastiano curato da Irene” e “Vestizione di san Guglielmo” di Guercino.
L’itinerario si conclude col Settecento multiforme, volta a volta aristocratico e popolare, di Giuseppe Maria Crespi (la “Fattoria” e l’”Autoritratto”), Donato Creti (le due “Tombe allegoriche”) e dei fratelli Gaetano e Ubaldo Gandolfi.